di
Giovanni Di Trapani
Ci sono voci che imparano a farsi ascoltare. E poi ci sono voci che imparano a farsi riconoscere. Non per ciò che dicono, ma per ciò che risvegliano. Delia Buglisi è così: un cuore che ha trovato il suo fiato, una verità che non chiede permesso. La sua storia non comincia tra le luci, ma nell’ombra buona delle stanze di studio, dove il pianoforte era un dio severo e paziente. Dodici anni di esercizi, di scale che salivano e scendevano come se volessero misurare il cielo e la terra, chiedendole ogni giorno: “Chi sei davvero?” E lei, bambina cresciuta tra lava e mare, cercava una risposta nel legno lucido dei tasti. Il pianoforte è stato porto e tempesta: complice e oppositore, padre e muro. Oggi, finalmente, amico fidato nel suo abbraccio con la libertà. Perché la libertà, per Delia, non è una parola astratta: è quel momento sospeso in cui la voce si stacca dal corpo e diventa carne di mondo. È un brivido che nasce nella pancia e arriva agli occhi, quando le ciglia tremano come antenne di un’antenata che torna a casa.
Le sue radici non parlano: cantano. Cantano in siciliano, lingua che sa di terra nera e pane caldo, di mani che lavorano e di storie che resistono al vento. Una lingua che non si studia: si eredita. Si impara con le ginocchia sbucciate e il sale sulle labbra. Sul palco di X Factor 2025, con Sakura, è successo qualcosa che non si può spiegare con le tecniche di canto. La Spagna si è confusa con la Sicilia. Il Mediterraneo si è sdraiato sul palco come un lenzuolo d’estate. Un solo verso ha incendiato l’aria: «Io mangio terra niura come l’Etna…» Era una dichiarazione di esistenza. Di sopravvivenza. Di identità che non chiede scusa.
Il pubblico si è alzato in piedi non per applaudire, ma per respirare con lei. I giudici hanno dimenticato per un istante di essere giudici, diventando semplici spettatori di una rivelazione. Achille Lauro le ha dato un nome antico e feroce: la Leonessa di Catania. Ma la sua forza non sta nel ruggito. Sta nell’attimo prima. Nel silenzio che precede l’esplosione. Nel modo in cui trattiene, quasi con pudore, quella luce che la abita e che lei teme, forse, possa essere troppo per il resto del mondo. Delia non si mette al centro della scena: è la scena a mettersi intorno a lei. Le sue mani diventano teatro, la sua voce memoria collettiva, le sue parole cicatrici che si fanno arte. Quando canta, non racconta una storia: la custodisce. Quando interpreta, non imita: appartiene.
Lei è la terra che fiorisce dopo l’incendio. È la lacrima che non cade perché decide di trasformarsi in canzone. È la forza delle donne che hanno pianto prima di lei, e che ora, attraverso lei, tornano a sorridere.