C’è una voce che si alza da Napoli – e non è solo una voce musicale. È una lingua. Un corpo. Una fenditura che attraversa il presente e lo costringe a guardarsi allo specchio. Non stiamo parlando di una cantante “emergente”, di una voce “urban” o di un prodotto culturale “alternativo”. Stiamo parlando di un fenomeno più profondo: La Niña[1] non canta, La Niña pronuncia il trauma del femminile, la rabbia della marginalità, la dolcezza della sconfitta, l’anima delle metropoli del Sud.
Nei suoi testi – che bisognerebbe leggere prima ancora che ascoltare – si intrecciano radici arcaiche e tensioni ipermoderne. Il dialetto napoletano, che molti continuano a relegare a registro comico o folklorico, diventa per lei materia poetica e carne politica. È il veicolo con cui si dice ciò che l’italiano non sa dire: il dolore che brucia e non si spegne, la notte che non consola, l’amore che incatena più che liberare.
Ma attenzione: non c’è estetizzazione del disagio, né compiacimento nella rovina. C’è invece una postura poetica che unisce la tradizione delle cantanti mediterranee – da Rosa Balistreri a Lila Downs – con l’urgenza espressiva delle street poet anglosassoni, in un corpo a corpo tra voce e verità.
Ecco perché La Niña non dovrebbe rimanere solo un “caso napoletano” o una suggestione da playlist d’avanguardia. Il suo è un messaggio politico nel senso più autentico del termine: parla di corpo, di desiderio, di ingiustizia, di femminilità armata e disarmata, di amore come guerra e come pace. In Figlia d’a tempesta, le sue parole squarciano secoli di rappresentazione passiva della donna, rivelando un’archeologia del silenzio e del sangue: “Ha dato la vita e ce l’hanno luata / ‘nu milion’ ‘e vote / vestuta ‘a puttana e vestuta da sposa.”
In un tempo in cui il discorso pubblico è dominato da semplificazioni, slogan e algoritmi, La Niña complica. Non parla a tutti. Parla per chi non ha mai avuto la parola. E lo fa senza facili accenti moralisti, ma con la forza della metafora e della musicalità che scuote.
Perché, allora, non è ancora sui palchi principali? Perché il suo nome non compare nei festival che sbandierano inclusività e innovazione? Forse perché la sua verità è troppo ruvida, la sua lingua troppo carnale, il suo accento troppo reale. Forse perché non ha accettato di trasformare il dolore in merchandise.
Eppure, mai come ora, abbiamo bisogno di chi rompe il canto omologato per dirci che esiste un’altra possibilità: quella di essere fragili e feroci, poetici e politici, regionali e universali. Di cantare con voce nostra, senza chiedere il permesso. Di fare della lingua non un confine, ma un grido.
La Niña è tutto questo. E per questo non dovrebbe “emergere”: dovrebbe essere riconosciuta come una delle voci poetiche centrali del nostro tempo. Non come fenomeno “da ascoltare”, ma come corpo linguistico e narrativo da interrogare, da studiare, da diffondere. Una che canta per sopravvivere. E che, cantando, ci salva un po’ anche noi.
[1] La voce che trasforma la lingua in identità. La Niña – artista e performer napoletana – si muove in una zona di frontiera, dove poesia e rabbia, corpo e canto, dialetto e universalità si intrecciano in un’unica urgenza espressiva. Non è solo musica: è linguaggio che ritorna ad essere carne, esperienza, coscienza collettiva. In questo contributo, Giovanni Di Trapani – ricercatore, scrittore e funzionario pubblico – ci invita a riconsiderare il valore poetico e politico di un’artista che merita la ribalta nazionale non per il suo stile, ma per ciò che il suo stile denuncia, evoca e trasforma. Una riflessione necessaria, nella rubrica “Pensieri sparsi”, per chi crede che la bellezza possa ancora essere un atto di resistenza.