di
Giovanni Di Trapani
C’è un odio che non nasce dal disprezzo, ma dalla resa. L’odio che si prova davanti a chi ha superato ogni misura, infranto ogni equilibrio, creato un linguaggio che non possiamo più dimenticare. Michael Jackson è questo: un trauma estetico che continua a vibrare anche dopo la fine. Odiare la sua grandezza è l’unico modo per difendersi da essa, e per continuare, segretamente, ad amarla.
Ecco, lo dico: io odio Michael Jackson. Ma il mio è un odio che non distrugge: è un modo di restare in contatto con l’assoluto. Ci sono artisti che non si possono amare direttamente, troppo abbaglianti per essere guardati senza ferirsi. Allora li si odia, per proteggerli da noi stessi. Ogni volta che i primi secondi di Billie Jean si accendono nell’aria, la realtà si sospende. Quel basso entra nel corpo come una corrente vitale, una pulsazione che attraversa il tempo e ricorda che la musica, prima di tutto, è un’energia. Lo odio perché ha trasformato il ritmo in una forma di destino. Perché nessuno ha mai saputo camminare all’indietro verso il futuro con quella grazia inesorabile.
Lo odio perché Thriller non è un album, ma una geografia. Perché Smooth Criminal è un teorema di precisione e desiderio. Perché Beat It ha fuso il rock e il funk come due elementi incompatibili, rivelando che ogni barriera sonora può diventare ponte. Lo odio perché dietro la macchina perfetta della sua musica si intravedeva la fragilità dell’uomo, il bambino in cerca di pace nel corpo di una leggenda. Perché Who Is It è una domanda che non smette di ferire, e Earth Song un grido rivolto al pianeta, alla sua ferita, alla nostra indifferenza. Odio la sua capacità di toccare il dolore collettivo senza mai rinunciare alla bellezza.
Eppure lo odio soprattutto perché continua. Perché ogni volta che parte Man in the Mirror, qualcosa si incrina: una certezza, un riflesso, una parte di me. Lo odio perché la sua assenza è diventata presenza costante, e perché la musica — la sua musica — non è mai davvero finita. Lo odio perché ci ha costretto a misurarci con l’impossibile, e perché da allora ogni passo, ogni voce, ogni beat sembra solo un tentativo di inseguirlo. Lo odio perché nessuno, dopo di lui, ha saputo farci sentire così vivi da dover fingere di odiarlo.
E forse è proprio in quell’odio che si nasconde la forma più pura dell’amore.