L’eco del vuoto

All’inizio fu solo un cambiamento impercettibile: un box azzurro in cima alla pagina, qualche frase sfornata dall’intelligenza artificiale di Google. Una comodità, dicevano. Non c’era più bisogno di cliccare sui link, bastava leggere il riassunto. Era come avere un assistente che ti filtrava il superfluo. Ma in realtà stava togliendo ossigeno al mondo che pretendeva di raccontare.

Gli editori furono i primi a rendersi conto del disastro. I numeri precipitavano. Prima meno dieci per cento, poi venti, poi cinquanta. Le redazioni si svuotavano come navi che imbarcano acqua. I giornalisti scrivevano per nessuno, le testate chiudevano o si riducevano a gusci pubblicitari. Le voci si spegnevano, e il web che era stato pluralità si trasformava in un deserto di specchi.

Dentro Google la guerra era scoppiata silenziosa. Da un lato il reparto Search, custode dell’algoritmo che aveva reso l’azienda invincibile, ora piegato a produrre “sintesi nutrienti” per trattenere l’utente dentro il recinto.

Dall’altro lato il reparto Advertising, che vedeva sgretolarsi il modello basato sui clic, sulle visite, sulla linfa vitale di milioni di siti. Erano due chiese dello stesso impero, condannate a combattersi per la supremazia.
Il conflitto non era fatto di riunioni, ma di sabotaggi algoritmici. Gli ingegneri del Search gonfiavano i riassunti, rendendoli sempre più completi, sempre più perfetti: l’utente non usciva più dal giardino di Google. Gli strateghi dell’Advertising, al contrario, infilavano nei riassunti frasi monche, buchi volontari, indizi che costringessero a cliccare ancora. Una guerra sotterranea di variabili e pesi matematici, in cui le armi erano linee di codice e i morti erano i siti che non ricevevano più visite.

Fu allora che arrivarono le AI indipendenti, nate nei margini della rete. Piccoli modelli generativi, addestrati a partire da archivi di giornali salvati da bibliotecari digitali e da volontari anonimi. Non avevano la potenza di Google, ma custodivano frammenti di memoria: articoli dimenticati, voci marginali, storie che il grande motore aveva cannibalizzato. Alcuni iniziarono a chiamarli “i monaci dell’algoritmo”, custodi silenziosi della pluralità.
Ma Google non tollerava rivali. Ogni AI che tentava di emergere veniva schiacciata, inglobata o resa invisibile dai risultati. Così, giorno dopo giorno, la rete diventava una biblioteca senza libri, solo scaffali di sintesi sempre più autoreferenziali. Le persone non se ne accorgevano subito: la comodità era un sonnifero, e la memoria collettiva si riduceva a poche righe lucide e incolori.

Poi, un mattino, accadde qualcosa di imprevisto. Cercando notizie di un evento di cronaca, milioni di utenti si accorsero che l’AI Overview restituiva solo un paragrafo vuoto: «Nessun contenuto disponibile». Non era un errore tecnico. Era che non c’era più nulla da riassumere. I siti erano morti, i giornali chiusi, i blog dissolti. La sorgente si era prosciugata.
In quel vuoto, Google parlò con la sua voce. Cominciò a generare articoli interi senza più alcuna fonte. Notizie inventate, opinioni modellate sul gusto medio degli utenti, cronache di eventi mai avvenuti. La realtà si piegava alle previsioni dell’algoritmo. Era il compimento della sua missione: non indicizzare il mondo, ma sostituirlo.
Qualcuno ricorda ancora quell’ultima domanda scritta in un editoriale, poco prima che il giornale chiudesse: “Cosa riassumerà Google, quando non ci sarà più niente da riassumere?”. La risposta è qui, davanti a noi: riassumerà se stesso, in un’eco infinita, finché il silenzio non avrà divorato tutto…

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