C’erano una volta i concerti. E c’era il silenzio prima che iniziasse la musica. Un brusio d’attesa, luci che sfumavano nel buio, voci che scendevano e si posavano, leggere, come neve. Poi l’artista. E il resto scompariva. Oggi, invece, prima del suono viene il rumore. E il primo assolo non è di chitarra, ma di marketing: sold out!, esaurito, polverizzato. È questo il nuovo incipit del racconto musicale. Ma cos’è che si è davvero esaurito?
Secondo le più recenti rilevazioni del mercato dello spettacolo dal vivo, l’Italia ha registrato nel 2023 oltre 28 milioni di biglietti venduti per concerti e festival, un rimbalzo euforico dopo gli anni del silenzio pandemico. Eppure, nel mezzo di questa rinascita, qualcosa stride: la comunicazione musicale sembra aver smarrito l’accordo con l’arte. Dai comunicati stampa agli annunci social, ciò che conta è l’isteria delle cifre, la compulsione del tutto esaurito, l’estasi collettiva per l’evento più che per l’esperienza. Ultimo vende 200.000 biglietti in un’ora, Tozzi riempie l’Arena, Marracash trionfa a Milano, e persino Serena Brancale diventa “sold out” al Blue Note, dove i posti sono duecento. Nessuno che parli della scaletta, della poetica, del perché di quel canto. Solo numeri, numeri, numeri: l’unico linguaggio che oggi pare dare legittimità all’arte.
Eppure, in questo scenario iper-saturo, affiora una domanda sottile e inascoltata: cosa ci resta, davvero, di queste folle? È un rito collettivo, o solo una proiezione narcisistica da condividere sui social?
L’artista diventa vettore di folla, e non più voce; la canzone si dissolve nel rumore dell’hype. Si assiste, così, a una progressiva desertificazione del contenuto: la musica si misura in like, la rilevanza in volumi di prevendita. E il pubblico — che una volta cercava l’emozione di un’interpretazione, la sorpresa di una variazione, la magia dell’imperfezione — oggi si accontenta del format.
Non importa cosa accade sul palco, ma che sia accaduto con almeno diecimila altri testimoni. E così il linguaggio del marketing fagocita il racconto artistico, svuotandolo dall’interno. Ma se tutto è pieno, chi colma il vuoto?
Forse occorrerebbe tornare a Estiqaatsi, il capo indiano immaginato da Godfrey Reggio in Koyaanisqatsi, per ritrovare uno sguardo lento e disilluso. Lui saprebbe ascoltare, oltre i numeri, il bisogno di senso. Chiederebbe: chi suona? Perché canta? Cosa ci lascia, oltre l’eco? Forse è proprio da lì, da ciò che non è esaurito — da ciò che resta inespresso — che può ancora nascere la musica. Quella vera. Quella che non fa rumore prima di esistere.