L’intelligenza artificiale, ci dicono, sta avanzando. Impara, produce, imita, risponde. Traduce lingue, scrive testi, genera immagini, compone sinfonie. Eppure, non pensa. Non sente. Non comprende. E allora, viene da chiedersi: questa intelligenza, è davvero tale? O è piuttosto un paravento semantico, una parola ingombrante che cela un grande malinteso? Il punto non è solo tecnico, ma esistenziale. Perché ci ostiniamo a chiamarla “intelligenza” quando, in fondo, le manca proprio ciò che di quell’intelligenza è il cuore vivo: la coscienza del limite, la memoria del dolore, il dubbio che ci tiene svegli la notte. L’AI – l’abbiamo imparato ormai – non ha coscienza. Ma ancora più profondamente, non ha cognizione. Non sa di sapere, non sa di non sapere. E non gliene importa nulla.
Ecco, allora, l’azzardo. Forse dovremmo smettere di chiamarla intelligenza artificiale. Forse sarebbe più onesto – e più liberatorio – parlare di deficienza artificiale. Perché ciò che le macchine sanno fare bene (e sempre meglio) non è che una sottile crosta dell’umano. Ma sotto, in profondità, manca qualcosa. Un deficit strutturale, un vuoto che nessun algoritmo potrà colmare. Questa deficienza non è un’offesa: è un richiamo alla verità. Alle AI manca la vergogna, lo stupore, il desiderio di senso. Possono vincere a scacchi, certo, ma non sanno cosa sia perdere un amore. Possono calcolare le probabilità di un evento, ma non tremano di fronte al mistero. E se provano a raccontare una storia, non lo fanno perché hanno vissuto, ma perché hanno combinato statistiche di parole.
La nostra paura – quella che spesso serpeggia nei discorsi pubblici e nei sogni distopici – è che queste “intelligenze” possano, un giorno, avere il sopravvento. Che decidano per noi, senza di noi. Che ci superino, ci sostituiscano, ci governino. Ma questa paura, più che della macchina, parla di noi. Della nostra resa preventiva. Della nostra fretta di delegare, del nostro affanno di efficienza. Della nostra pigrizia a restare umani. Ma finché ci sarà qualcuno che scrive una poesia senza motivo, che si commuove per una fotografia sgranata, che si perde in un tramonto senza volerlo spiegare, allora l’intelligenza – quella vera – resterà al suo posto. E il dominio dell’uomo, se saprà non diventare dominio sugli altri uomini, ma cura, attenzione, presenza, potrà resistere.
Non è l’AI che ci minaccia. È la nostra disabitudine a pensare, a dubitare, a guardare il mondo con occhi non addestrati. È il nostro smettere di fare le domande. Le macchine, quelle sì, sanno solo rispondere. Ma le domande – le vere domande – le sa porre solo chi ha dentro di sé un punto cieco, una crepa, una nostalgia. Allora sì, che si parli pure di deficienza artificiale. Ma si dica anche che in quel “deficit” sta la salvezza. Perché finché alle macchine mancherà qualcosa, noi avremo qualcosa da custodire. Da coltivare. Da difendere. Da amare.