La sera cala sul quartiere. Una finestra rimane accesa, tremula, tra le griglie ordinate dei palazzi. Dentro, una donna fissa lo schermo del suo telefono: cerca lavoro, invia curriculum, aspetta una risposta che non arriva mai. Forse è il suo volto a non convincere. O forse è l’algoritmo che la ha già classificata, valutata, scartata. Chi decide il destino di un corpo quando il giudizio non ha più voce né volto?
L’intelligenza artificiale viene spesso raccontata come una tecnologia di frontiera, figlia della ricerca scientifica, neutra per definizione. Ma la mappa che disegna il mondo è tutt’altro che innocente. Come ha mostrato Kate Crawford in The Atlas of AI, ciò che chiamiamo AI è un’infrastruttura globale, industriale, logistica e ideologica, che si nutre di risorse minerarie, di lavoro umano non riconosciuto, di dati raccolti senza consenso e di modelli predittivi che riducono la complessità del reale a griglie classificatorie. Non è né artificiale né intelligente, ma profondamente incarnata: costruita su miniere di litio e data center energivori, su piattaforme di annotazione e su modelli epistemici che traducono emozioni, comportamenti e storie in numeri, etichette, probabilità. L’AI agisce per astrazione: prende la vita e la semplifica. E agisce per estrazione: prende il nostro tempo, i nostri volti, le nostre parole, e li trasforma in valore economico. Nessuna macchina “capisce”: semplicemente, ordina.
Ma è proprio quell’ordine – quello che non vediamo – a trasformare la vita. Quando un algoritmo filtra chi può accedere a un prestito, chi ha diritto a un’assistenza, chi può varcare un confine, quella scelta si traveste da razionalità. Dietro, c’è un’ideologia: quella che riduce la giustizia a performance, la libertà a efficienza, la persona a parametro. Il mondo secondo le macchine è un mondo ottimizzato, misurato, addestrato a piacere. Un mondo che ha paura dell’imprevisto, del dissonante, dell’inclassificabile. Ma è lì, in quel disordine non computabile, che abitano le relazioni, le culture, le soggettività. È lì che resistono la differenza e la dignità. Servirebbe una mappa che non cerca di ridurre tutto a segnale, ma che accolga ciò che sfugge: un atlante nuovo, fatto non di territori da conquistare, ma di domande, silenzi, contraddizioni.
Non possiamo accontentarci di un mondo dove il reale si misura solo per ciò che può essere previsto. Gli algoritmi vedono molto, ma non tutto. C’è un ordine invisibile che continua a muovere i gesti, le scelte, le intese umane. È lì che nascono le alternative. L’AI non è destino, ma specchio: dipende da chi la costruisce, e da chi ha il coraggio di immaginare mappe diverse. Forse, allora, la vera intelligenza non sarà artificiale, ma quella che saprà smarrirsi, ancora, tra ciò che non si può spiegare.