Nel cuore di Pechino, un ragazzo cammina lungo il bordo ghiacciato del fiume Houhai, ascoltando in cuffia un pezzo trap francese. Indossa una giacca tecnica firmata, tiene in tasca uno smartphone progettato a Hangzhou e, ogni tanto, getta un’occhiata al cielo basso. È figlio della Cina della velocità, ma guarda il mondo con calma. Non per distrazione, ma per scelta. Gli occhi con cui scruta l’Occidente non brillano più di stupore. Brillano, semmai, di consapevolezza. Sono gli anni Novanta che hanno generato questa nuova generazione: nati in un Paese che nel giro di trent’anni è passato da una povertà diffusa a un benessere che, pur con mille contraddizioni, si è fatto tangibile, urbano, connesso. Non hanno mai conosciuto la Cina dell’attesa, ma solo quella del fare. Ecco allora che la narrazione un tempo dominante – quella che poneva l’Occidente sul piedistallo – si è rovesciata. O meglio: è diventata dialogo, confronto, non più soggezione. I giovani cinesi oggi non vogliono somigliare a nessuno. Semmai, vogliono essere riconosciuti per ciò che sono: eredi di un’antica civiltà entrata nel futuro per una porta tutta sua.
Sul piano geopolitico, questo sguardo non è né infatuato né rabbioso. Gli Stati Uniti appaiono come una potenza ambivalente: seducente sul piano tecnologico, ma spigolosa, ostile nelle relazioni. L’Europa, invece, conserva una certa attrattiva silenziosa: nei suoi valori sociali, nel welfare, nella ricerca di equilibrio. Ma non si tratta di un’adesione ideologica. I giovani cinesi osservano e valutano. Se un’idea funziona, è degna di attenzione. Se una politica dà frutti, può essere replicata. Il pragmatismo, più che l’identità, è la loro stella polare. Ed è proprio questo distacco dalle appartenenze che spiazza lo sguardo occidentale. Quando parliamo di “socialismo” in Cina, tendiamo a proiettare immagini da museo. E invece, per molti giovani cinesi, il socialismo è un lessico nuovo per l’innovazione, per la redistribuzione digitale, per la crescita armonica. Non è memoria: è metodo. Così anche il nazionalismo, parola che da noi evoca chiusura e paura, lì può significare voce propria in un mondo corale, fiducia in una strada non occidentale per giungere alla modernità.
In questo scenario, emergono figure di rottura. Il “liberal” occidentale, talvolta percepito come un moralista inconcludente, e il “sovranista”, visto come caricatura dell’avidità e della xenofobia, non affascinano. Vengono letti come due estremi incapaci di generare futuro. La Cina dei giovani preferisce strumenti più silenziosi: l’intelligenza artificiale come logistica, non come salvezza; il nucleare di nuova generazione come infrastruttura, non come bandiera ideologica. Il futuro non è uno spettacolo da applaudire, ma un sistema da far funzionare. Nelle pieghe della diplomazia, questa maturazione si riflette in uno stile meno incline alla sfida e più alla permanenza. Con l’India si compete, ma senza clamore. Con gli Stati Uniti si risponde colpo su colpo, ma si evita lo scontro cieco. Non si alzano muri, si tracciano orbite. È un’altra grammatica, meno retorica, più geologica. Eppure è proprio in questa sobrietà che si nasconde il cambiamento.
Per l’Occidente, continuare a leggere questi giovani con le lenti del passato è come tentare di orientarsi con una mappa sbagliata. Non siamo più di fronte a una copia imperfetta di noi stessi. Siamo di fronte a una generazione che ha imparato a non chiederci più il permesso per esistere. E che, nel silenzio rumoroso della modernità cinese, ci sta insegnando a riconoscere le stagioni nuove dell’Est. Sta a noi decidere se vogliamo ascoltare