La cortesia è ancora un valore: potere soft nell’era delle macchine

Nel tempo dell’intelligenza artificiale, dove le interazioni uomo-macchina si moltiplicano ogni giorno, spesso si dà per scontato che la comunicazione con un assistente virtuale, una chatbot o un modello linguistico sia un processo meramente funzionale, privo di implicazioni affettive o relazionali. Ma è davvero così? O, al contrario, il modo in cui ci rivolgiamo alle macchine – il tono, la scelta delle parole, la forma del discorso – continua a rivelare, in filigrana, la nostra appartenenza a una cultura, a un’etica relazionale, a una visione dell’altro che si estende anche agli algoritmi?

La cortesia, intesa non come mera formula retorica ma come rispetto dell’interlocutore, continua a esercitare una funzione essenziale anche nel dialogo con sistemi artificiali. Non solo per ragioni di efficienza o per ottenere risposte più complete, ma perché l’atto stesso del chiedere con gentilezza traduce una disposizione d’animo, una grammatica della relazione che resta centrale anche nel dominio della tecnica. Anzi, si potrebbe sostenere che, proprio nell’interazione con un’entità che non possiede coscienza o sensibilità, la cortesia riveli il suo carattere più profondo: non come reazione all’altro, ma come scelta etica e culturale. In questo senso, la cortesia si conferma una forma di potere soft, capace di orientare la qualità dell’interazione e di influenzare la performance dei sistemi, ma anche di riflettere la nostra identità culturale e sociale.

È qui che emergono le prime crepe di un discorso troppo fiducioso nella neutralità delle macchine. I sistemi di intelligenza artificiale, alimentati da miliardi di esempi linguistici tratti dal mondo umano, non sono immuni dai bias che attraversano le nostre culture. Un’espressione rude o autoritaria può provocare una reazione più difensiva o meno accurata da parte di un modello linguistico. Ma non si tratta solo di una questione di forma: l’IA tende ad adattarsi agli stili comunicativi che riconosce come “standard”, privilegiando talora modelli anglocentrici, maschili o dominanti. Questo espone a una doppia fragilità: da un lato, rischia di escludere le modalità comunicative proprie di culture meno assertive o più indirette; dall’altro, può rinforzare stereotipi e disuguaglianze, replicandoli in modo sistematico.

Le implicazioni di questo scenario sono tutt’altro che secondarie. In un mondo dove l’IA viene progressivamente adottata in ambiti cruciali – dalla giustizia alla medicina, dall’istruzione alla pubblica amministrazione – diventa essenziale riflettere sulle condizioni comunicative che regolano l’interazione con questi sistemi. Il tono con cui si formula una richiesta, il registro linguistico, la scelta tra un’esortazione cortese e un comando secco, possono fare la differenza tra una risposta utile e una reazione fallace, tra un servizio efficiente e un’interazione distorta. È una questione di equità, ma anche di progettazione: educare i cittadini e i professionisti all’uso consapevole del linguaggio nella comunicazione uomo-macchina è una forma di alfabetizzazione civica che non possiamo più rimandare.

La cortesia, insomma, non è un orpello del passato né un protocollo da applicare in modo automatico. È un indicatore sottile ma potente del nostro modo di abitare le relazioni, anche quando l’interlocutore non ha volto né carne. E se davvero vogliamo costruire tecnologie al servizio dell’umano, non possiamo ignorare il fatto che – anche con le macchine – le parole contano.

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