Un suono che manca, oggi, nei palazzi del potere…
Non è quello delle proteste o delle campane a martello, ma l’eco delle parole che un tempo si inseguivano nelle Aule, risuonavano nei corridoi, inciampavano nei voti contrari, si ricomponevano in legge. Oggi, quel suono è scomparso. Le stanze della democrazia sembrano riempite da voci sempre uguali, pronunciate in fretta, decise altrove. E intanto, fuori, cresce un silenzio inquieto.
Dall’inizio degli anni Ottanta, l’Italia ha imboccato una strada che ha progressivamente svuotato di significato la sua architettura costituzionale. Il Parlamento, cuore della rappresentanza democratica, ha visto erodere il proprio ruolo in favore dell’Esecutivo. Lo strumento del decreto-legge – previsto dall’articolo 77 della Costituzione come misura straordinaria – è diventato prassi. Secondo i dati ufficiali, oltre il 70% delle leggi approvate tra il 2001 e il 2024 ha avuto origine governativa, molte delle quali blindate dal voto di fiducia. Un processo che, di fatto, ha trasformato le Camere in ratificatori di decisioni già prese, riducendo drasticamente i tempi del dibattito e lo spazio del dissenso. È una democrazia che corre, ma non si confronta. Che approva, ma non ascolta. Che decide, ma non rappresenta.
Non è solo la forma del potere a essere cambiata, ma la sua sostanza. I partiti, un tempo mediatori tra società e istituzioni, si sono trasformati in comitati elettorali centrati su leader e slogan. Il conflitto, anziché giocarsi sulle visioni del futuro, si sposta sul piano del presente continuo: performance televisive, guerre di tweet, campagne di immagine. Anche la democrazia diretta appare logorata: i referendum falliscono per scarsa affluenza, per domande incomprensibili, per mancanza di coinvolgimento reale. Dei 72 quesiti promossi tra il 1974 e il 2022, oltre la metà non ha superato il quorum. L’ultima consultazione nazionale del 2022 ha registrato un’affluenza inferiore al 21%. È il segno di un distacco non episodico, ma strutturale.
Così la politica sembra galleggiare, mentre il Paese affonda in una stanchezza partecipativa. La sfiducia verso i partiti cresce, l’astensionismo si diffonde come un virus silenzioso, e sempre più cittadini si convincono che il loro voto non cambi nulla. La democrazia rappresentativa rischia di diventare una forma senza sostanza, un esercizio rituale privo di significato. Il vero problema non è nella tecnica – non è il sistema elettorale o il bicameralismo – ma nella rottura del legame vitale tra chi rappresenta e chi dovrebbe essere rappresentato. La filiera della cittadinanza si è interrotta: tra il Parlamento che non delibera, il Governo che non ascolta e i cittadini che non votano più, la democrazia si svuota, giorno dopo giorno.
E allora non resta che porsi una domanda: quanto può durare una democrazia che vive solo sulla carta? Forse la risposta non è in una nuova riforma istituzionale, ma in un gesto antico e necessario: ascoltare. Ricominciare a parlare, nelle piazze e nelle scuole, nei parlamenti e nei bar. Perché ogni volta che tacciamo, qualcun altro decide per noi. E la democrazia – come ogni cosa viva – muore quando non la si abita più.