La crescita diseguale, o del lavoro che non basta

C’è un’Italia che cresce senza convincere, che lavora senza avanzare. È quella che l’Istat ci mostra con la compostezza dei suoi numeri: nel 2024 il PIL è salito dello 0,7%, l’occupazione ha fatto un balzo dell’1,6%, ma la produttività del lavoro è scesa dello 0,9% per occupato e dell’1,4% per ora lavorata. Una crescita che non produce valore aggiunto sufficiente, che crea lavoro ma non benessere. Come una pianta che fiorisce ma senza frutti. La domanda, allora, non è più se cresciamo, ma per chi e come. Se il lavoro torna, ma svuotato della sua forza emancipativa, resta solo un esercizio di sopravvivenza.

Il mercato del lavoro italiano è frammentato, stratificato, fragile. I nuovi occupati si concentrano in settori a bassa produttività — costruzioni, turismo, servizi alla persona — mentre i comparti ad alta innovazione arrancano. Le donne, ancora una volta, lavorano meno e peggio; i giovani guadagnano troppo poco per costruirsi un futuro autonomo; gli stranieri, pur essenziali, restano confinati ai margini. L’occupazione cresce, ma il reddito disponibile resta sottotono, e la qualità del lavoro non segue il ritmo. Inoltre, il Mezzogiorno continua a mostrare i segni di una frattura che non si ricompone: meno lavoro, meno servizi, meno investimenti. La diseguaglianza territoriale non è più un’anomalia, ma una costante che la crescita non riesce a invertire. E così, la narrazione economica appare sempre più slegata dalle biografie reali, da ciò che accade alle persone dentro le statistiche.

Forse, allora, il PIL non basta. O forse serve un’altra idea di progresso. Un’idea che rimetta al centro il lavoro come forma di dignità, e non solo come variabile economica. Che premi il tempo investito, il talento espresso, la fatica silenziosa. Che sappia coniugare produttività e inclusione, efficienza e giustizia. Perché se la crescita economica continua a ignorare il destino di chi lavora, sarà sempre crescita a metà, incompleta, parziale. E in una società stanca, che fatica a credere, serve una nuova narrazione del lavoro: non come obbligo, ma come possibilità. Lavorare non deve voler dire solo sopravvivere. Deve voler dire costruire, scegliere, vivere. Altrimenti il Paese cresce, ma non si solleva.

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