C’è un futuro che non si realizza per mancanza di spazio. Non di tempo — quello i giovani lo avrebbero — ma di possibilità. È il futuro delle nuove generazioni italiane, quelle nate a cavallo del millennio, che hanno studiato più dei padri, si sono formate meglio delle madri, ma che spesso si trovano a bussare a porte che restano socchiuse. L’Istat ci racconta che solo un quinto dei nati nel 1992, provenienti da famiglie a bassa istruzione, ha conseguito un titolo universitario. Anche tra chi ci riesce, il salto sociale resta incerto: più che un ascensore, la mobilità è diventata una scala traballante, senza corrimano. A reggere il peso, troppo spesso, è ancora la famiglia d’origine. Più che emanciparsi, i giovani devono negoziare spazi di autonomia tra mille precarietà.
Eppure, qualcosa si muove. Controvento, ma si muove. I giovani che avviano un’impresa — e sono sempre più spesso donne, figli di immigrati, visionari delle periferie — incarnano un’idea di futuro che non si lascia schiacciare dal presente. Secondo l’ISTAT, le imprese giovanili, soprattutto in ambito digitale e tecnologico, mostrano tassi di crescita più vivaci, propensione all’innovazione, attenzione all’ambiente. Ma restano fragili. Mancano capitali, mancano connessioni istituzionali, manca fiducia. Il credito arriva a fatica, le reti di supporto sono spesso informali. E poi c’è il divario territoriale: al Nord si concentra quasi il 60% delle start-up innovative, mentre il Sud continua a emigrare i suoi talenti. Eppure, anche dove tutto sembra più difficile, c’è chi prova a restare e a costruire: un coworking in una stazione abbandonata, una cooperativa agricola che usa i droni, un’app che traduce i dialetti in memorie digitali. Segnali deboli, sì, ma reali.
Bisogna saperli vedere, questi segnali. E soprattutto, bisogna saperli accompagnare. Le politiche pubbliche non devono solo sostenere le imprese giovanili: devono riconoscerle come forme di cittadinanza economica attiva. Perché in un Paese dove il lavoro manca e la crescita arranca, creare qualcosa dal nulla è più che intraprendenza: è generosità civile. Non si tratta solo di start-up, ma di restart collettivi. Ogni giovane che prova a fare impresa oggi, nonostante le condizioni avverse, è un atto di fiducia in un’Italia che ancora può cambiare pelle. Basta non lasciarli soli davanti al futuro che non si apre. O peggio: davanti al futuro che si arrende.