Una volta era semplice: “la famiglia” evocava immediatamente un’immagine precisa — genitori, figli, spesso tre generazioni sotto lo stesso tetto, magari una nonna in cucina e un padre operaio o insegnante. Oggi, dire “famiglia” è pronunciare una parola al plurale, anche se non si sente. Non c’è più una forma dominante, ma un mosaico cangiante di legami, assenze, ritorni. L’Istat ce lo restituisce come fotografia e come monito: le famiglie italiane si riducono, si diversificano, si riorganizzano, in un Paese che invecchia e che, sempre più spesso, vive da solo. I nuclei unipersonali sono ormai quasi il 35% del totale, oltre il 40% nel Nord. I figli diminuiscono, i padri tardano, le madri resistono. Ma la storia familiare d’Italia continua, muta, e cerca nuove grammatiche per raccontarsi.
Questa trasformazione non è neutra. Dietro ogni variazione statistica si cela un equilibrio che cambia: meno figli significa anche meno futuro, meno fratelli, meno reti spontanee di sostegno. Le famiglie con figli minori rappresentano appena il 20% del totale, e la natalità continua a calare nonostante il desiderio di genitorialità resista, specie tra i giovani. Le ragioni sono molteplici e note: precarietà lavorativa, incertezza abitativa, diseguaglianze territoriali. E poi c’è il tempo, che sembra non bastare più, nemmeno per amare con calma. D’altro canto, crescono le famiglie monogenitoriali, le coppie senza figli, le convivenze non formalizzate. Nella società fluida, anche i legami domestici fluttuano. Eppure, in molte aree del Mezzogiorno, la famiglia continua a essere presidio, rifugio, welfare parallelo: nonostante tutto, lì la coabitazione multigenerazionale sopravvive. Forse per tradizione, forse per necessità. Ma ancora tiene.
Ed è proprio da questa complessità che potrebbe nascere una rinnovata idea di cittadinanza affettiva e sociale. Le politiche pubbliche, se vogliono essere all’altezza del tempo, devono leggere la famiglia non come un dato da proteggere, ma come un processo da accompagnare. Servono sostegni economici, ma anche visioni culturali: immaginare città che facilitino l’incontro tra generazioni, servizi che si adattino ai nuovi bisogni, narrazioni che includano tutte le forme di affetto e cura. Perché la famiglia, oggi, non è un’unità statistica: è un intreccio, fragile e potente, dove si custodisce il senso dell’abitare umano. E forse, tra un tavolo vuoto e una carezza tardiva, la vera rivoluzione comincia ancora da lì: da come ci scegliamo, ci lasciamo, ci ritroviamo.